Israel Shamir

The Fighting Optimist

Iran: tutto è bene ciò che finisce bene

Il dramma iraniano è stato una buona cosa, poiché dopo anni di demonizzazione gli iraniani sono apparsi finalmente umani al pubblico occidentale. Perfino McCain ha pianto per la ragazza iraniana uccisa, benché soltanto ieri sarebbe stato felice di “bombardare, bombardare, bombardare” lei e milioni di sue sorelle nell’oblio. Glenn Greenwald ha stigmatizzatol’inedita sensibilità dell’associazione “bombardiamo l’Iran” per il popolo iraniano” scrivendo: “Immaginate quante delle persone che hanno protestato questa settimana sarebbero morte se uno qualsiasi di questi propugnatori del bombardamento avesse potuto fare a modo suo! Si spera che uno dei principali vantaggi dei tumulti in Iran sia quello di umanizzare il Nemico Ultimo, chiunque esso sia”. Questa umanizzazione non potrà essere cancellata tanto presto, e dunque i bombardamenti potrebbero non avvenire mai più, nonostante le preghiere di Netanyahu e Lieberman.

Comunque c’è mancato un pelo. Un giorno o due dopo le elezioni l’Iran si trovava sull’orlo dell’abisso, pronto a scivolare nella follia tra enormi folle senza legge e guardie rivoluzionarie armate che si guardavano a vicenda con odio profondo. Tutte le conquiste iraniane avrebbero potuto essere cancellate dall’impazzare dei tumulti; un potere regionale appena sbocciato avrebbe potuto essere riportato indietro di cinquant’anni. Per un momento la sceneggiatura del futuro è diventata imprevedibile. Teheran si sarebbe allineata a Kiev, Ucraina, con la resa delle autorità all’inesorabile spinta dei ribelli, ripetendo le elezioni ed instaurando un presidente filo-occidentale, privatizzando petrolio e gas, conferendo più potere agli oligarchi e alle multinazionali, entrando nella NATO? O avrebbe seguito la sceneggiatura di Tien-an-men, inviando i carri armati a schiacciare gli studenti ostinati?

E’ finita bene, evitando entrambi questi estremi. I giovani professionisti, a volte sprezzantemente definiti “il popolo Gucci”, i comunisti anticlericali e i liberali, molti ordinari iraniani appartenenti alla classe media, hanno sfruttato quest’occasione per manifestare il loro desiderio di un regime meno austero. Vogliono potersi bere un bicchierino, poter indossare abiti eleganti, poter celebrare ricchi matrimoni senza doversi poi ritrovare nei guai. Alcuni vogliono poter sfruttare i propri privilegi e limitare il potere dello Stato e della moschea. Non vogliono essere sorvegliati in continuazione dai servizi di sicurezza. Alcuni dei sostenitori di Mousawi sostengono anche la lotta palestinese; non sono agenti della CIA, ma persone oneste e sincere. Molti di loro si occupano di arte, del glorioso cinema iraniano e di letteratura. Gli iraniani all’estero appoggiano a larga maggioranza Mousawi e anche loro sono persone simpatiche.

Il governo del legittimamente rieletto presidente Ahmadinejad farà bene a prestare attenzione ai loro desideri, almeno in parte. Si può anche ridere di questa gioventù occidentalizzata che gridava “Ahmadi bye bye” in un gergo da teenager ripreso dai cartoni animati, ma nessuno potrà governare in modo soddisfacente alienandosi del tutto queste elite nascenti, e governare è prima di tutto arte del compromesso.

I sostenitori di Mousawi non dovrebbero restare troppo amareggiati dalla loro sconfitta: erano un gruppo così variegato, composto di comunisti e anticomunisti, di anticlericali uniti a mullah e ayatollah, che in nessun modo avrebbero potuto essere soddisfatti anche in caso di vittoria. Anzi, una vittoria di Mousawi avrebbe dato inizio ad una lotta aperta per il potere e probabilmente proprio gli adepti del cambiamento più vocianti e impegnati si sarebbero ritrovati sconfitti. Successe già con i dissidenti sovietici. In Russia, durante il confronto dell’agosto 1991 (molto simile a questo), l’opposizione vinse e coloro che erano stati sulle barricate a favore di Yeltsin ebbero tempo per pentirsene; vennero ingannati e derubati. La stessa cosa accadde ai dissidenti iraniani dopo la caduta dello Shah: i comunisti del Partito Tudeh si ritrovarono ad essere messi fuori legge dopo la rivoluzione a cui avevano collaborato.

La stragrande maggioranza degli iraniani ha votato per Ahmadinejad, poiché egli è un uomo modesto e devoto alla sua gente, si è preso cura dei poveri e ha tenuto l’Iran fuori dalle grinfie imperialiste. Il suo lavoro sul programma nucleare gode di vasta popolarità e nemmeno il suo sfidante sconfitto ha osato pronunciare una sola parola contro di esso. Ahmadinejad ha ricevuto forte sostegno in tutto il paese, perfino nel Nord-Ovest a maggioranza azera. E’ popolare anche nel resto del globo come simbolo della ribellione del Terzo Mondo, alla pari con Castro e Chavez. Mantiene buone relazioni con le confinanti Russia e Cina, oltre che con l’Iraq e l’Afghanistan occupati dagli USA. La visita lampo di Ahmadinejad alla conferenza dello SCO a Yekaterinenburg nel bel mezzo della rivolta ha dato prova delle sue qualità di uomo di Stato. Nel suo discorso, orgoglioso e acclamato, non ha mai fatto riferimento alla crisi in patria e ha ricevuto le congratulazioni dei suoi alleati, il presidente Medvedev e il presidente Hu Jintao, per la sua vittoria elettorale. Le sue coraggiose posizioni antisioniste lo hanno reso popolare ai vicini arabi dell’Iran, seppur con fastidio da parte dei governanti arabi locali. Nel 2006 le sue armi hanno salvato il Libano dall’essere divorato da Israele. A volte si spinge troppo oltre, ma d’altronde in quale altro modo potrebbe capire quanto lontano può spingersi?

Le accuse di brogli elettorali sono del tutto prive di fondamento, come ben spiegato dal nostro amico James Petras, mentre Thierry Meissan ha esposto le tecniche utilizzate per convincere gli iraniani di essere stati imbrogliati. Ma al di là delle accuse di “brogli”, c’è un’altra osservazione che è veritiera: le elite spesso non amano la democrazia e le decisioni a maggioranza. Chi è ricco, istruito e potente sente che la sua voce non dovrebbe avere lo stesso peso di quella di un comune lavoratore o contadino. Essi sono a favore di “un governo delle elite e di un voto la cui rilevanza per ciascun individuo sia determinata dalla sua posizione in quella stessa elite”, come era solito dire un personaggio di Ian Fleming, Henderson, investigatore australiano e ubriacone, amico di James Bond, in “Si vive solo due volte”.

Solitamente le elite trovano il modo di “manovrare” la democrazia, in modo che la gente normale debba necessariamente votare per un rappresentante dell’elite. E’ il sistema che vige dall’India agli Stati Uniti. Tuttavia in alcuni momenti critici questo sistema non funziona più. In questi casi le elite ignorano il voto della maggioranza ed agiscono in modo diretto. E’ quello che successe in Russia nel 1993, quando le nuove elite filo-occidentali non si trovarono d’accordo con la maggioranza rappresentata nel Parlamento e mandarono i carri armati a cannoneggiare il Parlamento stesso. Sulle sue rovine, essi instaurarono il nuovo sistema di governo diretto. E’ quello che successe a Belgrado, dove i serbi dovettero votare più e più volte finché non fosse confermato il candidato sostenuto dalle elite. Perciò, a livello psicologico, i sostenitori di Mousawi sentono di essere stati derubati del potere che gli spetta. Ma le elezioni in Iran non sono rare: costoro possono ancora aggiustare il tiro delle proprie aspirazioni, offrire maggior considerazione ai desideri della gente comune e attendere le prossime elezioni.

Oltre ai candidati e ai diretti partecipanti, le elezioni iraniane hanno avuto altri due grandi protagonisti le cui azioni hanno contribuito ad evitare lo spargimento di sangue e il disastro. Uno di loro è la vecchia Guida Spirituale Ali Khamenei, un uomo saggio, laureato all’Università di Mosca. Egli ha mantenuto il pieno controllo degli eventi. Un uomo del genere è ciò che è mancato a Kiev e a Pechino. Il suo discorso di venerdì è riuscito a placare gli animi. Egli ha tracciato una netta distinzione tra i facinorosi e gli agenti della CIA da una parte, e i sinceri sostenitori del programma di Mousawi dall’altra. Dopo questa separazione delle pecore dalle capre, la pacificazione civile ha potuto procedere senza ulteriori ritardi. Khamenei ha perdonato e abbracciato i sostenitori di Mousawi. Infatti da quel momento in poi le grandi manifestazioni sono cessate: solo piccoli gruppi di attivisti irriducibili hanno sfidato i suoi ordini e sono stati dispersi con mezzi non letali.

Il secondo protagonista si trovava nel luogo più inatteso di tutti, a Washington. Il presidente Obama è stato il vero eroe di questo dramma. Si è rifiutato di favorire un’escalation della situazione, a dispetto delle richieste dei neocon. Non ha mai chiamato gli iraniani alle armi contro il regime maligno; non ha dubitato della legittimità delle elezioni, non ha minacciato Teheran di estinzione. Per un presidente appena eletto, schiacciato tra la vecchia guardia di Hilary Clinton e Joe Biden e la nuova guardia di Rahm e Axelrod, con una grave recessione fra le mani e le casse elettorali piene di donazioni ebraiche, è stato un atto di puro eroismo, degno di Iwo Jima. Posso immaginare cosa avrebbero detto Ronald Reagan o George Bush, pere et fils: qualcosa tipo “oggi siamo tutti iraniani”, come minimo.

La fallita “rivoluzione verde” era stata preparata dalla CIA, infiltrata dai sionisti, dell’epoca Bush. Paul Craig Roberts ha citato le parole del neoconservatore Kenneth Timmerman, il quale, il giorno prima delle elezioni, aveva scritto di una “rivoluzione verde” in arrivo a Teheran, poiché “la National Endowment for Democracy (NED, uno strumento della CIA, NdI) ha speso milioni di dollari per promuovere “rivoluzioni colorate”… e parte di quel denaro sembra essere arrivato nelle mani dei gruppi pro-Mousawi”. Ma il presidente Obama è stato un attore assai riluttante in questo dramma. Solo dopo essere stato pressato da Biden ha espresso il modesto desiderio che a Teheran prevalesse la non violenza. In tal modo, secondo me, egli ha assolto onorevolmente alla promessa fatta al Cairo di riconoscere i risultati elettorali e di evitare interferenze negli affari interni degli stati mediorientali. Certo, non ha potuto fermare la CIA, ma questo probabilmente andava oltre le sue possibilità.

Se si dovesse trarne una sceneggiatura teatrale, il prologo sarebbe ambientato alla Casa Bianca con l’arrivo del primo ministro israeliano Netanyahu. Il suo ruolo potrebbe essere interpretato da una vecchia attrice abituata a fare le cose a modo suo.

“Voglio una pelliccia di visone nuova”, avrebbe detto, e l’africano gli avrebbe chiesto rudemente se non preferiva magari due calci.

Solo che, in una peculiare imitazione di Salomè, Netanyahu anziché il visone ha chiesto le teste mozzate di molti persiani. Ha trovato una giustificazione biblica: i persiani sono Amalek, la tribù nemica, e per questo devono essere sterminati fino all’ultimo gatto.

Di norma, di fronte ad un primo ministro israeliano, i presidenti americani avrebbero iniziato a discutere come Abramo con il Dio dell’Antico Testamento: oh no, non fino all’ultimo gatto! Lasciamo in vita qualche gatto persiano, per favore!

Invece Barak Obama non ha nemmeno discusso l’argomento: ha chiesto a Israele di congelare l’espansione delle colonie ebraiche.

“Dovremmo discutere dei metodi per bombardare l’Iran, piuttosto…”, ha obiettato Netanyahu, ma il suo superiore negro si è rifiutato di acquistare la sudicia mercanzia degli ebrei. Ha insistito sullo smantellamento di parte delle colonie e lo ha fatto inserire nel programma. Per riportare l’Iran sotto i riflettori e farci dimenticare degli insediamenti, gli infiltrati sionisti hanno provocato i disordini in Iran.

Gli eventi iraniani sono parte ed esito dell’attuale lotta dello spirito americano, rappresentato dal presidente Obama, per ridimensionare l’eccessiva influenza ebraica. Nel breve periodo in cui è rimasto al timone della nave americana, egli ha compiuto alcuni passi importanti:

– Ha tenuto il discorso del Cairo, offrendo un ramoscello d’ulivo al mondo musulmano;

– Ha chiesto a Israele di rimuovere le colonie e di porre fine al blocco di Gaza;

– Ha rifiutato di sostenere il piano sionista per bombardare/destabilizzare l’Iran;

– Dopo 42 anni, la sua amministrazione ha conferito la Silver Star a un sopravvissuto della USS    Liberty. La USS Liberty venne aggredita da jet e cacciatorpediniere israeliane e quest’atto    indegno è stato tenuto nascosto agli occhi del pubblico americano dalla connivenza di tutti i    presidenti americani, fino ad Obama;

– Ispirata dalla sua vittoria, l’Università della California a Santa Barbara ha bloccato il tentativo della lobby israeliana di screditare ed espellere il professor Robinson. Queste cose non erano mai successe prima in America. Sono paragonabili ai primi fallimenti del senatore McCarthy e del suoComitato per le Attività Anti Americane, quando la macchina che aveva creato per stritolare la gente improvvisamente si ruppe.

E’ facile prevedere che la Lobby non accetterà stoicamente la sconfitta. Partirà all’attacco di Obama con tutti i mezzi a sua disposizione, compresi gli stupidi blog in cui si fa l’elenco di ciò che egli non ha ancora fatto, invece di essere felici per ciò che ha già fatto. Ha già abbastanza nemici a destra, perciò la sinistra potrebbe starsene tranquilla, fino a tempi più sicuri.

Gli iraniani hanno adesso l’importante compito di rammendare gli strappi e le sfilacciature provocate dalla campagna “colorata” dei sionisti. Dovrebbero ricordarsi che esistono tecniche molto avanzate di manipolazione psico-sociale che permettono ai malfattori di sfruttare i social network come Twitter per catturare e distruggere una società. I comuni cittadini iraniani che sono stati catturati da questa forma di controllo mentale sono innocenti come se fossero stati avvelenati. Il tempo di lanciare pietre è finito, ora è tempo di rimetterle insieme.

 

dal sito www.israelshamir.net

traduzione di Gianluca Freda
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