Mentre non passa anno senza che qualche nostalgico fantastichi (in estate) su improbabili “autunni caldi”, frutto di una fervida memoria ferma da almeno trent’anni, capita ormai con una certa frequenza che il caldo della lotta di classe si concentri nel mese luglio.
E’, però, una lotta di classe alla rovescia, con la quale – pezzo dopo pezzo – le classi dominanti si riprendono tutto: dall’indicizzazione dei salari alla contrattazione collettiva, dai diritti dei lavoratori alle pensioni.
Luglio 2007 non ha fatto eccezione. Anzi, da questo punto di vista è stato davvero un superluglio, mica abbiamo ancora l’inefficiente governo Berlusconi!
Blindatura del peggioramento del sistema pensionistico e stabilizzazione della precarizzazione del lavoro sono stati i piatti forti serviti a Palazzo Chigi da frotte di camerieri prezzolati, ma esibenti con gioia la qualifica che dà oggi la licenza di uccidere: riformista.
Forti di questo patentino, giornalmente rilasciato dal sistema dei media, il mese di luglio è stato quello dell’orgia “riformista”, dove ogni aderente al club cercava di incrementare i punti della propria patente in una corsa a tagliare (le pensioni) e a precarizzare (il lavoro).
Ma l’orgia non è stata solo mediatica. Anzi, quest’ultima serviva in realtà a coprire la portata di quel che stava avvenendo nel Palazzo del Governo, dove si andava materializzando un gigantesco atto della lotta di classe dei dominanti nei confronti dei lavoratori salariati di ogni fascia di età, checché ne dica la retorica giovanilista alla moda.
Infatti, come la guerra abbisogna della propaganda, anche l’attacco “riformista” di luglio necessitava di un’adeguata manipolazione della pubblica opinione, in modo da creare un’opinione distorta o, alla peggio, di impedire il formarsi di una qualsiasi opinione.
Naturalmente, tra i lavoratori più coscienti è assai chiara la percezione di aver subito l’ennesimo inganno, meno chiara è la consapevolezza della portata di questo inganno. Il “sono tutti uguali” è ormai nel senso comune dei più. Ben pochi sui posti di lavoro difendono ancora quello che molti credevano fosse “il loro governo”.
Alla consapevolezza dell’inganno si accompagna però la rassegnazione. Ecco perché gli annunci estivi di un “autunno caldo”, da parte del ceto politico radical-collaborazionista in partenza per le vacanze, davvero non convince nessuno.
Se per i giornalisti da strapazzo questa è merce da utilizzare per riempire la pagina bianca, così si alimenta il cosiddetto “dibattito politico” tra i cosiddetti “riformisti” e la cosiddetta “sinistra radicale” (per noi, sinistra collaborazionista); per i lavoratori è un’altra presa in giro. Tutti sanno come stanno le cose: il protocollo di intesa è stato firmato da Cgil-Cisl-Uil (sia pure con i mal di pancia della Cgil), la sinistra di governo si è limitata a convocare un’inutile manifestazione ad ottobre, in parlamento non esiste alcuna possibilità di cambiamento sostanziale in senso migliorativo degli indirizzi sottoscritti a luglio.
Blindatura è il termine che viene non a caso usato.
Blindato è l’accordo, blindato è l’equilibrio dei conti, blindato è il futuro delle pensioni, blindata è la certezza di un lavoro sempre più precario, blindato è il governo a dispetto dell’esiguità della maggioranza di cui dispone, blindato è il pensiero se perfino Claudio Magris ha sentito il bisogno di scendere in campo a difesa di lorsignori, blindata è infine la subalternità dei Giordano e dei Diliberto (dei Mussi e dei Pecoraro non merita neppure parlare, dato che sulle pensioni hanno detto da subito sì).
In astratto questa blindatura non impedirebbe di per sé la lotta, ma le condizioni concrete di quello che fu il movimento operaio impedisce ogni ottimismo.
Certamente nuove stagioni di lotta vi saranno, ma non sembrano proprio all’orizzonte dei prossimi mesi. Se poi ci sbagliamo, viva l’errore!
Quello che è certo è che occorre ricostruire una cultura anticapitalista, fondata non più sulle grandi narrazioni tipo “sol dell’avvenir” e dintorni, ma sull’analisi concreta del capitalismo reale, capace di vedere la società e non solo l’economia.
Detto per inciso, nel secolo scorso i critici del comunismo, pur non venendo meno al loro anticomunismo di fondo, concentravano i loro sforzi non sui modelli teorici, bensì sulla critica di quello che chiamavano “socialismo reale” ed alla fine hanno vinto. Non sarebbe il caso di imparare dal nemico?
I protocolli del superluglio dei dominanti ci parlano appunto di questo capitalismo reale.
E’ utile perciò esaminarli con attenzione.
Una vita da precario
Da tempo sono finiti i tempi in cui qualcuno pensava ad un capitalismo capace di occuparsi del cittadino-lavoratore dalla culla alla bara.
Oggi, per non smentire questa visione onnicomprensiva, il capitalismo si dà da fare per precarizzare l’intera esistenza: non solo il lavoro, in virtù delle esigenze della competitività, ma anche la pensione. Nell’età della pensione non c’è più da “competere”, ma c’è pur sempre qualcosa da spremere. In questo caso la spremitura si chiama spinta alla pensione integrativa, in modo da mettere in mano agli indici finanziari la qualità della vita della propria vecchiaia.
Partiamo dunque dalle pensioni, un tema che interessa la totalità dei lavoratori.
Una pensione più lontana e più povera
Sfatiamo subito alcuni luoghi comuni.
I conti del sistema previdenziale italiano ci vengono presentati come catastrofici o quantomeno a rischio. E’ falso: il fondo dei lavoratori dipendenti è attualmente (dati Inps) in attivo di 3,5 miliardi di euro, mentre le entrate contributive (anche a causa dell’ultima finanziaria) sono in continuo aumento.
Si dice che il rapporto tra pensionati e lavoratori attivi sarebbe in costante crescita a causa dell’andamento demografico. E’ falso: questo rapporto che era di 74 a 100 nel 2001 è oggi di 71 a 100, dato che l’andamento demografico naturale è corretto da un lato dall’afflusso dei lavoratori immigrati e dall’altro dalla tendenza “spontanea” (in realtà indotta dall’accrescersi del divario tra salario e pensione, altro che spontaneità!) ad andare comunque in pensione più tardi.
Si dice che l’Italia avrebbe di gran lunga i pensionati più giovani d’Europa. E’ falso, visto che l’età effettiva di pensionamento è superiore a quella della Francia ed assai vicina (pochi mesi di differenza) a quella della Germania.
Partendo da questo insieme di falsità si è costruito il “superamento”- termine tanto ricorrente nel programma prodiano, quanto magico ed ambiguo, dato che si può sempre superare in peggio – della legge Maroni.
Ed effettivamente, bisogna riconoscerlo, Prodi, Damiano e Padoa Schioppa si sono davvero superati, nel congegnare un autentico imbroglio, di cui ora passiamo a vedere i punti centrali.
Imbroglio numero uno: le “quote” e gli “scalini”
Agli italiani, distratti dal quotidiano istupidimento del sistema informativo, è stata raccontata per settimane la seguente favola: questo governo, che non è rozzo come il precedente, ha allo studio dei meccanismi più flessibili per sostituire il rigido “scalone” lasciatoci in eredita dal rozzo padano Maroni. Uno scalino in più sì, per passare dai 57 anni attuali per la pensione di anzianità con 35 anni di contributi a 58 anni dal 2008, ma poi flessibilità grazie all’innovativo sistema delle quote, intese come somma dell’età anagrafica e degli anni di contributi versati.
Anche sulle quote si davano ovviamente i numeri, non oltre 95 per Rifondazione, 96, forse 97 per gli altri. Tuttavia, un punto sembrava essersi affermato: l’elasticità del meccanismo, senza la quale del resto non ha obiettivamente senso parlare di quote.
Molti lavoratori hanno perciò iniziato a fare calcoli, valutando ad esempio di poter andare in pensione con 58 anni di età e 37 di lavoro (quota 95), o magari, con le quote successive, con 59 di età e 38 di lavoro (quota 97).
Errore, niente da fare, i fautori per mestiere della flessibilità, questa volta hanno deciso di essere rigidi. E la mattina dell’accordo si è così scoperto che le quote proprio non esistono, se non come finzione.
In realtà il protocollo stabilisce che si matura il diritto alla pensione (che ancora non vuol dire “andare in pensione”, dato l’altro imbroglio delle finestre di cui ci occuperemo in seguito) con 35 anni di anzianità contributiva, alle seguenti età:
– 58 anni dal 1° gennaio 2008
– 60 anni dal 1° luglio 2009
– 61 anni dal 1° gennaio 2011
– 62 anni dal 1° gennaio 2013
Noterete che questa mia tabella è un pò diversa da quella diffusa dal governo e pubblicata dai giornali. Lo è per svelare l’imbroglio. Ho infatti riportato soltanto le condizioni minime per maturare il diritto alla pensione con 35 anni, mettendo in evidenza come di fatto i “democratici” scalini del centrosinistra siano in realtà quattro autentici scaloni, fissati a 58, 60, 61 e 62 anni.
Che cosa hanno escogitato i centrosinistri imbroglioni al governo per mascherare il loro inganno?
Semplice, hanno definito “quota 95”, la generosa possibilità di andare in pensione con 59 anni e 36 di contributi dal 1° luglio 2009 al 31 dicembre 2010.
Ma, a differenza della pretesa elasticità, l’età anagrafica è vincolante. Ora dovrebbe essere ovvio (ma temo che non lo sia del tutto!) che chi avrà 36 anni di lavoro con 59 anni di età nel 2009, ne aveva 35 all’età di 58 nel 2008. Dunque, il lavoratore del nostro caso aveva già avuto in precedenza la possibilità di andare in pensione. Gli unici “beneficiati” saranno i lavoratori che raggiungeranno i 59 anni con 36 di contributi tra il 1° luglio e il 31 dicembre 2010, una condizione assai particolare che riguarderà al massimo qualche migliaio di lavoratori. Ridicola in ogni caso l’entità del beneficio: un massimo di 6 mesi per chi ha avuto la fortuna di nascere il 1° luglio!
Se la “quota 95” del 2009 (intesa come 59+36) non verrà dunque utilizzata quasi da nessuno, servirà invece ad elevare in un colpo solo l’età di pensionamento di due anni, arrivando così ai famosi 60 anni dello scalone del vituperato Maroni in un solo anno e mezzo: alla faccia degli scalini!
Un’opera così ben avviata non poteva che concludersi in bellezza.
Dal primo gennaio del 2011 la soglia anagrafica è di 61 anni (perfettamente in linea con quanto previsto dalla legge Maroni). Per la “quota 96” contrabbandata a questa data, per cui un sessantenne potrebbe andare in pensione a condizione che abbia 36 anni di contributi, valgono le considerazioni già svolte per “quota 95”.
Questo brillante allineamento consente poi il vero oltrepassamento della legge del governo Berlusconi.
Quella legge prevedeva nel 2013 una verifica dei conti per decidere se innalzare o meno l’età pensionabile a 62 anni.
Il protocollo di luglio, volendo far giustizia di ogni incertezza, decide invece il passaggio automatico a 62 anni dal 1° gennaio 2013. E così anche Maroni è stato superato ed il “popolo di sinistra” servito.
Imbroglio numero due: i lavori usuranti, ovvero la negazione pratica di un diritto affermato solo a parole
Questo stesso “popolo”, deluso sullo scalone, ha pensato di trovare qualcosa di buono nella parziale esenzione dall’aumento dell’età pensionabile dei lavoratori che svolgono attività usuranti.
Esenzione parziale, perché comunque l’innalzamento a 58 anni varrà anche per gli usurati.
Ma non è questo il cuore dell’imbroglio, in questo caso un vero e proprio schiaffo al principio di uguaglianza. Diciamo di più: questo imbroglio, il modo in cui è stato confezionato, è un oltraggio all’intelligenza delle persone ed un insulto ad ogni valore di moralità nella vita pubblica.
Ma andiamo per ordine.
Il protocollo precisa le categorie rientranti nei “lavori usuranti”: lavoratori compresi nel “decreto Salvi” del 1999 (minatori, cavatori, sommozzatori ecc.), lavoratori turnisti che effettuino almeno 80 notti all’anno, addetti alle linee a catena, conducenti di mezzi pubblici pesanti, il tutto per una platea prevista di circa un milione e 400mila persone.
Naturalmente questo elenco ha delle significative assenze, tra le quali è opportuno segnalarne una: i lavoratori dell’edilizia.
Ognuno di noi conosce il grado di usura di questa attività (esposizione al caldo e al freddo, all’umido, alle polveri, al rischio di incidente, eccetera). “Stranamente” questa categoria non solo è stata omessa dall’elenco degli usurati, ma ancor più significativamente è stata cancellata anche dal dibattito che ha preceduto la proposta governativa.
Nessuno, né il Prc, né i sindacati, né altri ne hanno parlato. E questo è un “dettaglio” che merita qualche riflessione. Perché questo silenzio? Una ragione dovrà pur esserci. Personalmente me ne sono date due. La prima, sicuramente più evidente ma ritengo meno decisiva, sta nell’entità numerica della categoria la cui inclusione avrebbe grosso modo raddoppiato la platea degli usurati. La seconda, meno evidente ma decisiva, sta nel fatto che la forza lavoro dell’edilizia è ormai in buona parte costituita da lavoratori immigrati privi di ogni rappresentanza politica e sindacale, vera carne da macello il cui destino non interessa a nessuno.
Anche a voler considerare soltanto la prima spiegazione di natura economica (poi, arrivando al cuore dell’imbroglio, vedremo che le questioni economiche sono già state brillantemente risolte in altro modo e dunque la spiegazione decisiva è in realtà la seconda) avremmo la subordinazione di un diritto alle esigenze di cassa, giusto per mettere in luce i criteri sociali che ispirano i protocolli.
Ma considerando invece come più attendibile, o comunque prevalente, la seconda spiegazione, ce n’è davvero abbastanza per dare un giudizio politico e morale sul governo e sulle sue appendici di sinistra che su questo non hanno nemmeno speso una di quelle tante parole che in genere consegnano al vento più che agli atti della storia.
Anche se ci fermassimo qui, a questa clamorosa esclusione, avremmo già chiaro come gli imbroglioni di luglio hanno avuto la capacità di trasformare in una nuova ingiustizia l’applicazione di un principio in sé giusto e da rivendicare, come quello del riconoscimento di un fatto così evidente come la diversa usura insita nei diversi lavori.
Detto in altre parole: messo nelle mani di questi farabutti anche il più nobile dei principi è destinato a trasformarsi in merda.
Ma veniamo al punto in cui l’imbroglio diventa colossale ed insopportabile.
Ragionando su una platea di un milione e 400mila persone in attività, da dividere in 35 fasce anagrafiche, si ottiene un numero medio di 40.000 unità per ogni fascia. Ne consegue che circa 40.000 lavoratori all’anno dovrebbero andare in pensione usufruendo dell’esenzione in questione, potendo così anticipare la propria uscita dal lavoro.
I sostenitori dell’accordo, come i suoi critici moderati, si sono dati un gran da fare per evidenziare questa conquista sociale (dove per “conquista” deve intendersi comunque la mera attenuazione del peggioramento previsto per la generalità dei lavoratori).
Ma ad un certo punto a Padoa Schioppa, forse pressato dagli ultras rigoristi, sono scappati dei numeri: “ne usufruiranno”, ha detto, “dai 5 ai 7mila lavoratori all’anno”. Perché 5-7mila e non 40mila?
All’inizio si poteva pensare al solito teatrino governativo, dove a Padoa Schioppa tocca la maschera del rigore, salvo quando deve annunciare i ricchi finanziamenti alle imprese.
Poi, però, il protocollo ha preso a circolare, ed in esso sta scritto che a prescindere dai requisiti, i lavoratori riconosciuti come soggetti al lavoro usurante saranno contingentati in numero di 5.000 all’anno, fino al 2017, anno in cui è già prevista la nuova verifica dei conti. Una commissione tecnica dovrà quindi definire le graduatorie perché i tetti numerici dovranno essere rigorosamente osservati.
La presa in giro è evidente: a 7 lavoratori su 8 verrà spiegato che hanno sì un diritto, ma che tale diritto sarà reso inesigibile dai vincoli di bilancio. Da sempre un diritto è tale se è universale, se chi ne è portatore può esigerlo, e comunque non si è mai visto un diritto sottoposto ad una commissione che dirà ai più: siete usurati, ma non abbastanza; datevi da fare che forse il prossimo anno tocca a voi.
Una simile porcata non ha davvero bisogno di commenti.
Imbroglio numero tre: finestre per tutti
Nel linguaggio comune la finestra è un’opportunità, nel sistema pensionistico è una fregatura.
A cosa servono le finestre? Servono a ritardare la data della pensione rispetto alla maturazione del diritto. Ad esempio, con quattro finestre chi matura il diritto alla pensione nel 3° trimestre dell’anno va in pensione alla fine del 4° trimestre, con un ritardo che va quindi da un minimo di tre ad un massimo di sei mesi. Con due finestre, come quelle previste dalla legge Maroni, il ritardo va da un minimo di sei mesi ad un massimo di un anno.
E’ evidente dunque che il sistema delle finestre è di per sé truffaldino, dato che posticipa comunque il godimento di un diritto maturato.
Ma anche qui il governo Prodi ha deciso di fare meglio, “superando” di nuovo la legge Maroni. Ed ancora una volta lo fa in maniera truffaldina, mettendo in evidenza un piccolo miglioramento, la promessa del passaggio da due a quattro finestre per chi ha 40 anni di contributi, per nascondere un notevole peggioramento: l’introduzione delle finestre a chi oggi non ce l’ha, né le avrebbe avute con la Maroni, cioè a chi va in pensione di vecchia – gli uomini a 65 anni e le donne a 60.
Questo significa che ai 65 o 60 anni si dovranno aggiungere altri 3-6 mesi di lavoro.
Anche questo innalzamento dell’età lavorativa a chi ha raggiunto i limiti definiti non a caso di vecchiaia non richiede ulteriori commenti.
Interessante è la stima economica di questi interventi. Che il costo per i lavoratori sia superiore ai benefici è cosa assai evidente, dato che coloro che vanno in pensione con 40 anni di contributi sono assai meno di quelli che ci vanno con i requisiti di vecchiaia. Ma, a scanso di equivoci, gli estensori del testo si sono preoccupati di esplicitarlo. Nel protocollo d’intesa si precisa infatti che i risparmi ottenuti con questo intervento sulle finestre serviranno a coprire diverse spese tra cui quelle per 5.000 lavoratori posti in mobilità che con gli “scalini” non avrebbero più copertura fino alla pensione.
Dunque, al di là della scandalo dell’innalzamento mascherato dell’età della pensione di vecchiaia, abbiamo un governo che (non dimentichiamolo, non rispetto all’oggi, ma addirittura in confronto a quanto previsto dalla Maroni) con una mano dà e con l’altra prende. Ma quel che prende è più di quel che dà.
Imbroglio numero quattro: la revisione dei coefficienti ed una promessa già rimangiata
La legge Dini (legge 335 del 1995) è stato un capolavoro controriformatore. Un’opera d’arte allora benedetta da Cgil-Cisl-Uil ed accettata da chi in nome di una politica ormai vuota, alla quale si cercava di dare disperatamente un’anima con l’antiberlusconismo, implorava allora a tutti di “baciare il rospo”.
Quel rospo (Lamberto Dini) è sempre vivo, e l’abbiamo visto all’opera nelle settimane precedenti il parto del 20 luglio. Quel che è peggio è che gli effetti della sua controriforma si fanno oggi sentire ben al di là di quanto si potesse immaginare. Le pensioni calcolate con il sistema contributivo saranno tra qualche anno la maggioranza, fino a diventare progressivamente la totalità. Oggi sappiamo che in base a quella legge avremo vere pensioni da fame. Un lavoratore giovane può attendersi un tasso di sostituzione (pensione rispetto alla retribuzione) sotto il 50%, rispetto al 70-80% (a seconda delle categorie) del sistema retributivo.
Per portare a termine questo autentico massacro sociale, premessa imprescindibile per far veramente decollare i fondi pensione integrativi, la legge Dini prevedeva l’adeguamento dei coefficienti di trasformazione. Questa operazione è l’architrave del disegno controriformatore: attraverso di essa si ha la garanzia della stabilizzazione dei costi previdenziali calcolati come quota del Pil, per cui ad un aumento numerico degli anziani si risponde con la destinazione ad essi di una quota di Pil (il 14% circa) invariabile.
Ovvio che questo significhi impoverimento individuale, dato che la stessa fetta della torta dovrà essere spartita tra un numero maggiore di individui.
Ragioni elettorali prima (2005, governo Berlusconi), e comunque ragioni di consenso poi (2006, governo Prodi) hanno consigliato il rinvio di questa operazione. Ma ora, grazie al protocollo del 20 luglio, abbiamo una data certa: a partire dal 1° gennaio 2010 scatta l’adeguamento dei coefficienti, che poi avverrà automaticamente ogni tre anni.
La stampa si è dilungata nel presentare questa operazione come lunga e complessa, dato che verrà costituita una commissione ad hoc che avrà il compito di studiare gli equilibri pensionistici nel lungo periodo.
Non facciamoci ingannare. Allegata al protocollo c’è già la tabella dei nuovi coefficienti che a partire dal 2010 ridurrà il valore delle pensioni calcolate con il metodo contributivo del 6-8%. Così, tanto per cominciare.
Si dirà che queste cose sono pessime, ma che in questo caso non c’è imbroglio, dato che erano già previste dalla legge del 1995. Errore: l’imbroglio c’è, eccome.
Avrete letto sulla stampa di un grido quasi commosso rivolto alla condizione dei giovani (tra parentesi, saranno proprio i giovani con il sistema contributivo a pagare il prezzo più caro del controriformismo dei “riformisti”, ma chi glielo dice?), un grido che ha portato alla scoperta che le loro “riforme” condurranno a pensioni vergognosamente basse. Da qui l’impegno di non portare il tasso di sostituzione sotto il 60%.
Questo “impegno”, vedremo quanto fasullo, ha entusiasmato i sostenitori ed i critici moderati dell’accordo: finalmente si è dato qualcosa ai giovani!
Anche se il 60% sbandierato fosse attendibile, avremmo comunque una riduzione della pensione del 15-25% rispetto ad oggi, a seconda che si lavori nel settore pubblico o in quello privato.
Il fatto è che quel 60% non è affatto attendibile.
Nei giorni successivi all’accordo si è cominciato a precisare che il 60% è un obiettivo, una meta a cui tendere, non proprio una garanzia. Diciamo pure, in maniera più chiara, che di un’altra presa in giro a costo zero si tratta.
Questa volta facciamo certificare la presa in giro ad un ultras del “riformismo” e del rigore. Così come nessuno metterebbe in dubbio l’esistenza di un rigore contro il Milan riconosciuto tale dal leader delle Brigate rossonere; nessuno vorrà mettere in dubbio la certificazione di serietà “riformista”, rilasciata da un ultras di questa professione di fede, nei confronti di una misura prima vista come un “cedimento nei confronti della sinistra radicale”.
L’ultras in questione si chiama Nicola Rossi, economista e parlamentare di maggioranza. La sua soddisfazione l’ha espressa in risposta ad un degno compare (Enrico Letta), precedentemente sospettato del cedimento di cui sopra. Il chiarimento non è avvenuto alla Domenica sportiva, ma sul Corriere della Sera del 31 luglio – un luogo assai frequentato da questi ultras – al termine di un “botta e risposta” (si fa per dire) durato alcuni giorni.
Lasciamo qui perdere il fraseggio insulso di Letta, ambiguo ed espresso in politichese come si conviene ad un candidato alla guida del Partito Democratico. Più utili nell’afferrare l’essenziale le parole di Rossi.
Leggiamolo dunque per fugare ogni dubbio: <<La replica del sottosegretario alla presidenza del consiglio (Letta, ndr) sgombra il campo da una seria fonte di preoccupazione. Da essa si evince, infatti, in maniera inequivoca che nessuna garanzia è stata offerta dal governo ai sindacati – semplicemente perché in base alla legislazione vigente non poteva essere offerta – circa il livello minimo dei trattamenti pensionistici dei giovani nei decenni a venire. Una precisazione importante perché non immediatamente evidente non solo nell’intervista di Enrico Letta (apparsa qualche giorno prima, ndr) ma anche e soprattutto nelle dichiarazioni successive all’accordo, tanto di membri del governo e della maggioranza quanto di esponenti sindacali>>.
La garanzia del 60% semplicemente non c’è. Si è però cercato di venderla come tale. Ecco perché oltre al danno c’è la beffa di questi imbroglioni incalliti.
Imbroglio numero cinque: pagano i precari
Avrete letto che l’insieme degli interventi previsti dal protocollo ha tuttavia un costo di 10 miliardi di euro in 10 anni. Ricordiamo che questo aggravio non è raffrontato alla legislazione vigente (legge Dini), perché in tal caso registreremmo invece una enorme riduzione dei costi, ma alle attese di risparmio determinate dalla legge Maroni, che sarebbe entrata in vigore il 1° gennaio 2008.
Perché si parla proprio di 10 miliardi in 10 anni? Per due motivi: il primo è che se si parlasse di un solo miliardo all’anno, l’effetto sarebbe quello di evidenziare un raffronto in sostanziale pareggio con la Maroni (e d’altra parte questo misero miliardo – che è uno zero virgola rispetto all’insieme della spesa previdenziale – già se lo pagano i lavoratori con l’aumento dei contributi dell’ultima finanziaria). Il secondo è che a regime il sistema uscito dall’accordo di luglio porterà addirittura a dei risparmi anche rispetto alla Maroni.
Facciamo ora un piccolo confronto di questo “aggravio”, presentatoci come quasi insostenibile, con altre voci di spesa dello Stato.
Quanto costerà in 10 anni la riduzione del cuneo fiscale, cioè del grazioso regalo elargito alle imprese con uno dei primi atti del governo Prodi? Come minimo 50 miliardi di euro, ma questa cifra è destinata a lievitare notevolmente dato che pare che si vogliano estenderne i benefici a soggetti (banche e assicurazioni) che oggi ne sono esclusi.
E quanto costa il piano decennale delle opere pubbliche, tra le quali troviamo ovviamente i peggiori progetti di devastazione ambientale (Tav, eccetera)? Come minimo i 118 miliardi di euro previsti, ma qui sappiamo che i costi si dilatano con facilità .
Insomma, scusate la banalità, i soldi ci sono per le imprese e per opere in larga parte destinate ad alimentare l’affarismo e la corruzione, non ci sono per lavoratori e pensionati.
Ma nonostante l’estrema esiguità del miliardo annuo, un’elemosina che fa il paio con quella dei 29 euro elargiti ai pensionati più poveri (quelli sotto i 693 euro mensili, un’altra infamia che si commenta da sola), Prodi, Damiano e Padoa Schioppa si sono preoccupati di pareggiare questa uscita facendola pagare in larga parte ai lavoratori parasubordinati, i cosiddetti Co.co.pro e Co.co.co, che vedranno aumentarsi i contributi di un punto percentuale all’anno, dal 2008 al 2010 per un totale del 3%.
Ma questi “lavoratori a progetto” (attualmente un milione e 780mila persone), che ci mostrano un’Italia tutta intenta a progettare, non sono forse i “giovani” di cui tutti si riempiono la bocca?
Imbroglio dunque, ma per costoro imbroglio doppio, visti i contenuti del successivo accordo detto, chissà perché (un altro imbroglio?), “riforma del Welfare”.
Imbroglio numero sei: contratti senza tempo
Dato che l’appetito vien mangiando, e viste le deboli risposte dei dissenzienti – sia nella maggioranza di governo che in ambito sindacale – i “riformisti” hanno deciso di fare il pieno, superando per molti aspetti la stessa legge Biagi.
A pochi giorni dall’accordo sulle pensioni, è così seguito quello sulla legge 30.
Gli slogan per gonzi del tipo “flessibilità sì, precarietà no” (ecco l’immancabile imbroglio) sono stati tradotti nel protocollo d’intesa in una conferma pressoché totale della legge Biagi, che in alcune parti (le più importanti) viene opportunamente peggiorata.
E’ questo il caso dei contratti a termine, sui quali viene confermata la cancellazione di ogni causale per la loro attivazione, affermando dunque la totale libertà dell’impresa di assumere a termine per generiche “necessità aziendali”.
Ma questo ancora non basta. Ed il vero piatto forte dei “riformisti” è la possibilità di rinnovo all’infinito dei contratti a termine, così come viene sancita nel protocollo di luglio, laddove si prevede la loro estensione senza limiti temporali, anche dopo il “tetto” dei 36 mesi tra proroghe e rinnovi. Per compiere questa operazione basterà recarsi presso la Direzione Provinciale del Lavoro accompagnati (indovinate perché) da un rappresentante sindacale.
Dunque, precari a vita. In Italia la quota complessiva delle diverse tipologie del precariato ha già raggiunto il 20% della forza lavoro totale e viaggia a gonfie vele. E’ questo il capitalismo reale di cui parlavamo all’inizio. Ed il governo Prodi, degno interprete di questo capitalismo, ha fatto del suo meglio per farvi corrispondere la legislazione sul lavoro.
Precari a vita, è questo che vogliono, e non lo nascondono neppure più, se non nella retorica di cui ammantano certi loro discorsi. Nei fatti, comunque, hanno le idee chiare: nessun limite viene imposto al ricorso dei contratti a termine, neppure indicando una percentuale massima delle assunzioni di questo tipo.
Nessun limite neppure all’utilizzazione del lavoro interinale. Per gli interinali non c’è nemmeno la finzione del “tetto” dei 36 mesi. E qui viene in mente la battaglia che facemmo nel Prc, nella primavera del 1997, contro il “pacchetto Treu” che introduceva per la prima volta nel nostro paese il lavoro interinale. Alla fine raccogliemmo oltre duemila firme di dirigenti locali e nazionali di quel partito contro quello che intravedevamo chiaramente come l’inizio di un percorso disastroso. Altri, dal pavone Bertinotti al suo insulso successore, assicuravano sull’esistenza dei famosi “paletti” che ne avrebbero limitato rigidamente l’estensione, ed i parlamentari del Prc votarono l’infame “pacchetto”.
Oggi sappiamo almeno chi avesse ragione.
Imbroglio numero sette: contratti per tutti i gusti, commissioni per “superarsi”
Giunti a questo punto non è il caso di dilungarsi.
E’ evidente che la legge Biagi ne esce confermata e rafforzata. Dunque “superata”, nel senso già specificato di peggiorata. Qui l’imbroglio è fatto da una serie di imbrogli, ognuno per ogni tipologia di contratto.
Ogni forma di contratto precarizzante viene o confermata od estesa.
Lo “Staff leasing”, ovvero il “contratto commerciale di somministrazione a tempo indeterminato”, cioè l’affitto di intere squadre di lavoro presso le agenzie di lavoro interinale, non solo non viene cancellato (come i sinistri governativi davano per certo), ma viene addirittura incentivato con erogazioni alle stesse agenzie.
Ai Co.co.pro si chiede di continuare a progettare per tutta la vita.
Ai lavoratori a part time il protocollo regala la lieta novella di una flessibilità a senso unico: le aziende potranno cambiare l’orario a piacimento (viva la flessibilità!), ma i lavoratori – in questo caso quasi sempre lavoratrici – potranno opporsi solo per “comprovati motivi di cura” (abbasso la flessibilità!). Nessuna “doppia chiave” dunque, neppure sui cambiamenti improvvisi di turno.
Si è scritto invece dell’eliminazione del lavoro a chiamata, il cosiddetto Job on call. Attenzione, non è così. A volte per “superarsi” bisogna anche cancellare ciò che non funziona. E questo è il caso del Job on call per il quale si prevede di costituire una commissione per <<definire una forma di part-time per brevi periodi che potrebbe assumere la stessa funzione>>.
Con ogni evidenza, non di abrogazione si tratta, ma di semplice necessità di ridefinizione di questo strumento.
Altre commissioni sono previste su altri temi, giusto per non precludersi la possibilità futura diulteriori “superamenti”.
Imbroglio numero otto: un inganno bipartisan già consumato
Dopo i tanti imbrogli messi in cantiere, vediamone ora uno già consumato.
Se luglio è stato il mese della grande abbuffata, il 30 giugno 2007 è una data addirittura epica dell’azione (contro)riformatrice. A luglio, infatti, gli imbroglioni sono arrivati con un buon riscaldamento: una truffa andata a buon fine (anche se un pò meno del previsto) per preparare il grande affondo.
Stiamo parlando del trasferimento del Tfr (le liquidazioni) nei fondi pensione integrativi.
Se ci fosse una classifica degli obiettivi bipartisan, perseguiti con pari tenacia, perfidia ed inganno da entrambi gli schieramenti, questa norma sarebbe certamente al primo posto.
Non è un caso che, di comune accordo (sindacati in prima fila), la sua entrata in vigore sia stata anticipata di un anno rispetto al resto della legge Maroni di cui pure fa parte.
Il perché di tanta fretta è cosa nota: alimentare i mercati finanziari, ingrassare i fondi pensione, irrobustire la concertazione e la corruzione sindacale. Il tutto, ovviamente, in nome del “futuro delle nuove generazioni”, alle quali notoriamente pensano senza sosta.
Per inciso, se questa fosse davvero la preoccupazione, perché non si è costituito un fondo integrativo volontario presso l’Inps? I lavoratori sarebbero stati ben più garantiti, l’Inps avrebbe incassato i soldi.
Troppa grazia! Banche e assicurazioni sarebbero rimaste a bocca asciutta, gli speculatori pure, così come i sindacalisti sarebbero rimasti senza poltrone ben remunerate nei consigli d’amministrazione dei fondi chiusi.
Che siamo diventati pazzi? Scusiamoci perciò per l’ingenuità della domanda posta e torniamo al dunque.
Come noto i lavoratori privati (quelli pubblici non hanno ancora i “fondi”, ma vedrete che provvederanno!) hanno avuto sei mesi di tempo, dal 1° gennaio al 30 giugno scorso, per compilare un modulo per accettare o rifiutare il trasferimento del proprio Tfr verso un fondo integrativo.
Il ragionamento bipartisan per spingere all’adesione ai fondi è stato il seguente: vi abbiamo decurtato alla grande le pensioni (come siamo stati bravi!), ma vi diamo la possibilità di rinunciare integralmente al Tfr per potervi costruire una (modestissima) pensione integrativa (qui siamo stati bravissimi ed anche generosi!); per meglio incentivarvi – dato che siete un pò zucconi – ci siamo anche preoccupati di innalzare a dismisura la tassazione sul Tfr, così il trasferimento nei fondi sarà ancora più vantaggioso (qui, va riconosciuto, siamo stati addirittura geniali).
Questo “ragionamento” (inclusa la vanteria per la falcidia fiscale del Tfr) lo abbiamo trovato, nei mesi scorsi, nelle dichiarazioni di ministri e “oppositori”, di sindacalisti e di pennivendoli addetti alle pagine economiche dei giornali. Chi scrive ha avuto l’opportunità di leggerlo in un bel volantino patinato della Cgil.
Ma tutto ciò non sarebbe servito a niente se non vi fosse stato l’imbroglio bipartisan della norma sul “silenzio assenso”.
Cosa prevedeva quella norma? Un’autentica mostruosità giuridica, il trasferimento forzoso del Tfr per quei lavoratori che non avessero esplicitato la loro scelta. Che questa sia una truffa è fuori discussione: come si possono trasferire dei soldi di una persona verso una forma di investimento finanziario (perché questo di fatto sono i fondi), senza neppure una firma di quella stessa persona?
La cosa è ancora più grave perché la legge prevede in ogni caso l’impossibilità del recesso. Chi si troverà senza Tfr ed iscritto ad un fondo senza nemmeno averlo scelto non potrà neppure tornare indietro. Una enormità, quest’ultima, che ha sollevato perfino qualche tenue critica da parte di Giuliano Amato, preoccupato non per l’imbroglio, ma perché questa clausola ha disincentivato l’adesione da parte di molti.
Sta di fatto che la truffa del “silenzio assenso” è stata decisiva, dato che senza di essa l’operazione “fondi”, pur così tanto sponsorizzata, sarebbe miseramente fallita.
I dati ufficiali non ci sono ancora, ma le proiezioni dicono che mentre ha aderito esplicitamente solo il 3,7% (tre virgola sette per cento) della platea interessata (tonfo clamoroso dei “riformisti” nel consenso), vi sarebbe però stato un 30% circa di lavoratori “silenti”, per legge dunque “assenzienti” (vittoria dei “riformisti”, e degli speculatori finanziari, nella truffa).
Ovviamente non è difficile immaginare che la quota di lavoratori “silenti” appartenga agli strati più deboli e precarizzati del mondo del lavoro, giusto per colpire il bersaglio più facile.
Se qualcuno pensa che stiamo esagerando nella descrizione di un cumulo di imbrogli, rifletta sulla portata di quanto si è consumato il 30 giugno, nel tripudio bipartisan Damiano-Maroni, e ci dica dov’è l’esagerazione.
Che dire?
Dopo questa disamina c’è ben poco da dire.
Certo, potremmo dedicarci all’analisi politica, a cercare di capire dove andrà questa compagine governativa, a quel che faranno gli apprendisti stregoni del Prc e del Pdci, ai probabili scenari dei prossimi anni.
Ma per il momento è forse più utile fermarsi ad alcune considerazioni più generali.
La prima, di carattere strutturale, è che il rullo capitalista macina senza sosta, indifferente ai drammi sociali che provoca. Ovviamente è stato sempre così, ma in altre epoche storiche (ad esempio nel trentennio 1945-1975) le politiche capitalistiche dovevano tener conto (in occidente) delle necessità del compromesso sociale. Oggi anche questo limite è travolto. Lo sappiamo ormai da oltre un quarto di secolo, ma non per questo non dobbiamo rilevare la crescente voracità delle classi dominanti attuali. Una voracità che è ormai inversamente proporzionale ad ogni progettualità sociale. So che questa formula contiene il rischio dello scivolamento catastrofista da cui è bene guardarsi. Ma la catastrofe sociale (oltre che ambientale) incombe davvero, anche se gli effetti che se ne vedono in occidente, e che qui abbiamo cercato di esaminare relativamente all’Italia, sono ben poca cosa rispetto a quel che avviene su scala globale.
La seconda, è il degrado morale e culturale, prima ancora che politico, dell’attuale classe dirigente. Una classe politica ormai incapace di esprimere una qualsiasi idea di società, soggiogata agli imperativi sistemici, oltre che corrotta sul piano individuale.
Una classe politica capace di discutere ed accapigliarsi su come reperire la miseria di un miliardo all’anno pur di rastrellarlo all’interno del sistema previdenziale, quando si stima che l’effetto cumulativo dei tagli sulle pensioni abbia prodotto negli ultimi 14 anni un risparmio di spesa pari a circa 200 (duecento) miliardi di euro!
Oggi che tutti possono osservare l’innocuo alternarsi di centrodestra e centrosinistra al governo, che ognuno può rilevare l’assoluta intercambiabilità dei ruoli, c’è forse la possibilità che inizi a prendere forma la consapevolezza del capitalismo reale in cui viviamo. Quel che occorre, prima di tutto, è sviluppare la coscienza del rifiuto, la comprensione del fatto che possiamo di dire di no, che ribellarsi è giusto e necessario.
La terza considerazione riguarda la sinistra. Già nel digitare questa parola si avverte la necessità del distinguo. Ma da tempo abbiamo imparato che non possiamo sfuggire al marcio della sinistra reale rifugiandoci in una nuova sinistra che non c’è.
Oggi la sinistra sembra dividersi tra chi vuole superare la destra come guardiana del mercato, delle liberalizzazioni, delle privatizzazioni, e chi – nell’illusione di mantenere un presidio sociale ormai inesistente – si concepisce come “limitatore del danno”.
I primi vanno spediti, al punto di cambiarsi continuamente l’abito pur di realizzare la loro missione di primi della classe nella modernizzazione capitalistica; i secondi arrancano, ma vivacchiano grazie al fatto che non essendoci limite al peggio, non può esserci un limite neppure alla politica ed alla logica del “meno peggio”. Apparentemente, i primi sono odiosi, i secondi soltanto patetici. Errore di superficialità! Se i primi sono odiosi per quel che fanno e per come lo fanno, il ruolo dei secondi è per certi aspetti ancora più ripugnante.
Nell’imbroglio generale insito nelle politiche del governo, c’è l’imbroglio particolare dei menopeggisti della sinistra collaborazionista di governo. Costoro, con espressione afflitta e sofferente ci raccontano di ciò che vorrebbero, ma non possono; di un “nuovo mondo possibile” che per incanto avrebbe dovuto prendere le mosse dalla coabitazione (per giunta subalterna) con Padoa Schioppa; di una lotta che le masse dovrebbero condurre contro il governo, mentre loro al governo ci stanno (sia pure soffrendo, beninteso!).
Pretendere rigore teorico dagli attuali dirigenti del Prc sarebbe come chiedere a Cicciolina di farsi suora, tuttavia fa un certo effetto sentire ripetere a disco rotto che “la questione del governo non è decisiva”, che “il governo non è un fine ma un’opportunità” e via bestemmiando idiozie. Per questi imbroglioni al cubo stare al governo piuttosto che all’opposizione è dunque insignificante, preferiscono tuttavia il governo per sfruttarne le “opportunità”. Se questo discorso avesse un senso, dovremmo dedurne che anche la partecipazione ad un futuro governo Berlusconi (qualora ve ne fosse la possibilità) andrebbe accolta come un’opportunità da non perdere.
No, non possiamo chiedere a costoro alcun rigore. Ma un minimo di conoscenza della storia dei comunisti, visto che per ora (forse non per molto) continuano a definirsi tali, uno se l’aspetterebbe. E invece no. Preferiscono fare finta di ignorare quel che ha sempre significato, nelle diverse circostanze storiche, la questione del governo di una società capitalista per i comunisti.
All’imbroglio si aggiunge così la diffusione dell’ignoranza tra i loro stessi militanti. Alla riflessione si sostituisce il chiacchiericcio quotidiano sulla politichetta nazionale.
Che dire? Tutto serve a vivacchiare, ma niente li salverà dalla rovina.
La quarta considerazione riguarda un aspetto assai profondo, che dovremo indagare meglio anche perché collegato al punto precedente sulla sinistra.
Chi scrive non aveva dubbi sul fatto che il centrosinistra sarebbe stato più funzionale del centrodestra alle esigenze sistemiche ed ai concreti interessi delle oligarchie finanziarie dominanti.
Ovvio che le banche preferissero Padoa Schioppa a Tremonti, sicuro che Montezemolo preferisse Prodi a Berlusconi, chiaro che Confindustria preferisse Damiano a Maroni.
Ma tutto lasciava pensare ad una politica dai due volti: concreta e servizievole con i dominanti, ma attenta, almeno nelle forme, a non inimicarsi la base sociale che li ha mandati al governo. Questo non per una qualche attenzione alle classi popolari (ci mancherebbe!), né per una particolare educazione verso di esse, ma semplicemente per la coltivazione dei normali interessi della ditta, che almeno ogni 5 anni ha pur bisogno di quei voti per continuare a fare fatturato e profitti.
Insomma, se Berlusconi può presentarsi come lo sguaiato Paperone di Arcore, si poteva pensare che i centrosinistri al governo avrebbero almeno somigliato un pò ai vecchi democristiani, sempre in affari con il Diavolo, ma mai mancanti a messa ed in genere seri e compunti di fronte ai problemi della vita quotidiana.
Ovviamente anche quella posa era un imbroglio, sempre meglio però degli imbrogli di oggi, ed in ogni caso gli interessi della ditta li sapevano fare assai bene. Già, ma qual è la ditta dell’odierna sinistra? Un tempo era il partito, ma oggi?
Per dirla in breve, la sensazione è che essendo ormai la politica trasversale, la ditta di riferimento non vada più intesa come metafora stante ad indicare il partito o la corrente di appartenenza, ma debba invece essere ormai interpretata in un senso assai più vicino al significato letterale del termine.
Non a caso se c’è una parola su cui non si discute, perché sacra, è appunto “impresa”.
Questo lo sapevamo, ma le discussioni di luglio, le cento interviste del campionato nazionale dei “riformisti”, hanno fatto emergere qualcosa di più: non solo l’adesione totale e totalizzante agli imperativi sistemici del capitalismo, ma l’espressione neanche tanto velata di un profondo odio di classe verso i lavoratori. Un odio per certi versi più profondo di quello espresso dalla destra. Che i “soggetti del cambiamento” di un lontano passato turbino ancora, magari incosciamente, il sonno dei governanti di oggi? Che la psicologia ci venga in soccorso!
Si dirà, ed è vero, che non tutti i partecipanti a questo torneo vengono dalla sinistra. Ma Fassino, Veltroni, D’Alema, giusto per limitarci agli ultimi tre segretari Ds, da dove vengono?
Del resto, in precedenza, abbiamo insistito sul concetto di imbroglio. Ed un imbroglio continuato come quello messo in atto nel superluglio di Palazzo Chigi che cosa esprime se non il massimo disprezzo degli imbrogliati?
Attenzione dunque alla corretta valutazione di costoro: una cricca al servizio delle oligarchie finanziarie in economia e della Casa Bianca in politica estera, ma al tempo stesso una banda assetata di potere, disposta a qualsiasi violenza e sopruso pur di mantenerlo insieme ai privilegi conquistati.
Da costoro, insomma, non solo politica, ma anche odio di classe.
Ricambiamoli con la stessa moneta.
Post Scriptum
Dato che il protocollo non è ancora legge, molti si chiedono come andrà a finire in autunno.
Non credo che possano esserci veri cambiamenti. O meglio, in parlamento vi sarebbe un’ampia maggioranza trasversale pronta a peggiorare ancora il tutto. Ma, al di là dell’infinito campionato tra “riformisti”, non penso ve ne sia la convenienza politica.
In quanto ai possibili miglioramenti di dettaglio (e di facciata) reclamati dai menopeggisti che sfileranno il 20 ottobre, saranno appunto – se ci saranno – di dettaglio e più che altro di facciata.
Ovviamente, non è che manchino gli spazi economici. Abbiamo già ricordato i 200 miliardi di euro tagliati al sistema previdenziale dal 1993 al 2007. E con il protocollo di luglio nuovi e ben più consistenti risparmi faranno gioire i rigoristi di ogni risma.
In quanto all’età pensionabile, giova ricordare a chi si lamenta in continuazione del miglioramento delle aspettative di vita, che in meno di 20 anni (1995-2013, quando le nuove regole andranno a regime) si sarà allungata l’età della pensione di anzianità di ben 10 anni.
Dunque i rigoristi, dal punto di vista della mera compatibilità economica, potrebbero benissimo starsene tranquilli al riparo delle loro blindature multiple. E dal loro bunker potrebbero fare qualche piccola concessione qua e là, giusto per il quieto vivere.
A luglio, però, non l’hanno fatto, mettendo in croce i collaborazionisti.
Non l’hanno fatto sia per ragioni ideologiche che politiche. Hanno ritenuto preminente, prima di ogni altra cosa, affermare il completo dominio delle oligarchie di cui sono parte, scrivendo così sulla pelle dei lavoratori le vere ragioni fondanti del futuro Partito Democratico.
Il “rospo” di cui abbiamo già parlato lo aveva del resto preannunciato al Prc, dicendogli in sostanza: fatela finita, siete ormai fuori dalla storia, prendete atto che comandiamo noi e limitatevi a darci il voto che altrimenti torna bau-bau Berlusconi.
Un simile affronto, successivamente reiterato da Rutelli e da altri esponenti di spicco della maggioranza di governo affinché lo capissero anche i sordi, un tempo sarebbe stato giustamente considerato un’onta da lavare nel sangue. Tradotto in atti politici: via dal governo e tutti (rospo compreso) a casa.
Questo in tempi normali, in cui il pensiero dominante non era ancora pensiero unico; in cui i partiti, e gli uomini che li dirigevano, avevano ancora una dignità ed un onore da difendere. Ma oggi?
Oggi abbiamo i facitori del danno al governo assieme ai pretesi riduttori del danno. E come in molti incendi estivi chi appicca il fuoco e chi cerca di spegnerlo vive spesso fianco a fianco. In genere, però, il bosco brucia.
La manifestazione del 20 ottobre non fa certo pensare ad un vero sussulto di orgoglio.
Sembrerà impossibile, ma la piattaforma (leggere per credere) non cita neppure di striscio i protocolli di luglio limitandosi ad affermare che: “L’attuale governo non ancora ha dato (sic!)risposte ai problemi fondamentali che abbiamo di fronte”. I manifestanti del 20 ottobre marceranno quindi per una “svolta”, ma evitando di dire intanto il benché minimo no su pensioni e legge 30.
Ma la politica è fatta anzitutto di no. Tanto più quando, come in autunno, il parlamento, il paese, la stampa parleranno di queste due cose concrete che riguardano la grande maggioranza degli italiani, non certo di “svolte”.
Il senso di questa manifestazione è del resto reso evidente dalla data scelta.
Perché ottobre, quando tutti sanno che la finanziaria, che imbarcherà in qualche forma i protocolli di luglio, dovrà essere presentata dal governo entro il 30 settembre? E quando tutti sanno che, dati i numeri al Senato, andrà avanti presumibilmente a colpi di fiducia?
Non disturbare il manovratore è la vera preoccupazione di costoro, mugugnanti perché in difficoltà, ma pur sempre “leali” come solo i veri collaborazionisti sanno essere.
E perché, se proprio ottobre deve essere, il 20 e non ad esempio il 13? Ce lo spiega (ma guarda un pò!) Gianfranco Fini, che essendo impegnato a mettersi in mostra nel centrodestra, pare stia organizzando per quella data una manifestazione per oscurare un pò le primarie del Partito Democratico previste per il 14 ottobre.
Racconta Fini alla stampa di aver telefonato nei giorni scorsi a Giordano per informarsi se per caso Prc e soci preparassero qualcosa per quel giorno. Giordano lo ha rassicurato: ci avevano pensato, ma poi hanno risposto sì alla richiesta di compiere un gesto di cortesia nei confronti di Veltroni e compagnia. Ecco perché sarà il 20 ottobre, e non il 13, ad essere candidato a diventare giornata mondiale dell’ipocrisia.
Quando si dice: “lotta dura senza paura!”
Come finirà allora?
Alla fine qualcosa si inventeranno, non è la fantasia che gli manca. Che cosa, probabilmente non lo sa ancora nessuno. Ma non importa, quel che è certo è che si tratterà di un pò di fumo, che non influirà sulla qualità e sulla quantità dell’arrosto cucinato nel superluglio delle classi dominanti.