Discorso pronunciato il 12 ottobre 2008 al Forum Pubblico Mondiale del Dialogo di Civiltà, tenutosi a Rodi.
Amici,
c’incontriamo in un momento fatale e meraviglioso. La grande crisi finanziaria sta portando al collasso dell’egemonia; le reti intessute per catturarci si stanno disfacendo.
Siamo come prigionieri che vedono i propri carcerieri agitarsi in preda ad una terribile confusione. Inizialmente proviamo paura: forse non ci passeranno la zuppa per il rancio; forse i nostri piccoli privilegi, accumulati con pazienza, svaniranno. Ma non abbiate rimorsi, dubbi né paure: quella che si spalanca di fronte a noi è la via della libertà. I muri crolleranno, i carcerieri se la daranno a gambe, e noi saremo liberi!
I carcerieri ed i loro accoliti provano a convincerci a sostenerli. Altrimenti – affermano – non saranno in grado di comandare come hanno fatto finora e sarà l’anarchia_ non ci sarà lavoro né stipendi. Se accettiamo di stare al loro fianco, ci promettono di migliorare le nostre condizioni. Rifiutate! Nessun supporto dev’essere dato ai carcerieri. Forse perderemo una porzione di zuppa, ma il mondo intero sarà nostro. La poltiglia d’azioni ed obbligazioni è solo carta senza valore; l’economia reale non sarà intaccata. Anche se tutti i dollari del mondo dovessero svanire, noi lavoratori sopravviveremmo, così come i Russi sono sopravvissuti alla polverizzazione del rublo ed i Tedeschi a quella del marco.
Oggi, possiamo scrollarci di dosso l’egemonia culturale del Centro; la dipendenza semi-coloniale dell’Oriente finirà. Nel nuovo mondo avremo bisogno d’un sistema delle relazioni internazionali su base egualitaria. Nei due secoli passati, l’egemonia occidentale ha costantemente frammentato l’Oriente, facendolo a brandelli. Oggi possiamo cominciare il processo opposto, quello dell’integrazione. In passato i nostri valori sono stati sopraffatti dalla loro egemonia, ma in futuro prevarranno assieme ai nostri interessi. Solo un anno fa, immaginare ciò sarebbe stato un sogno ingenuo. Oggi, grazie al collasso finanziario, è realmente possibile.
L’autodeterminazione nazionale è una questione basilare nel dialogo pluricentenario tra Oriente ed Occidente. Le due parti si sono fraintese, anche (o specialmente) quando hanno usato termini identici. L’autodeterminazione nazionale ha davvero due significati, così come “le radici d’un albero in una piazza quadrata” sono diverse dalle “radici quadrate”. Quell’espressione si può riferire sia all’autodeterminazione politica sia all’autodeterminazione sistemica.
L’autodeterminazione sistemica è vecchia, vecchia quanto l’uomo. L’autodeterminazione politica è invece una recente invenzione di Woodrow Wilson.
L’autodeterminazione sistemica è concetto vicino a quello di “sovranità”, e si può descrivere come il diritto d’una nazione (intesa come Stato) a scegliere liberamente i propri sistemi politico, economico, sociale e culturale, ossia a vivere secondo i valori che le sono congeniali.
L’autodeterminazione politica è il diritto d’un popolo (inteso come unità etno-culturale) di creare uno Stato, o aderirvi o secedervi. Entrambe le forme d’autodeterminazione sono sancite come diritti nazionali dalla Carta delle Nazioni Uniti (articolo 1, paragrafo; articolo 55, paragrafo 1), ma le loro applicazioni sono piuttosto diverse.
1. Autodeterminazione politica
Il diritto delle nazioni all’autodeterminazione politica è parte integrante del paradigma moderno: è stato brandito dall’Occidentale nel quadro d’una tendenza romantico-nazionale, e sfruttato per strappare i Balcani ed il mondo arabo da quella grande comunità orientale ch’era l’Impero Ottomano. I territori che hanno messo in pratica la propria “autodeterminazione”, per pura coincidenza, sono divenuti colonie, protettorati o dipendenze britanniche, poi passati sotto l’egida della Pax Americana. Il realizzarsi dell’autodeterminazione politica col disfacimento dell’Impero Ottomano determinò massacri e pulizie etniche su scale mai viste prima. Smirne e Salonicco, Greci e Turchi, Armeni e Curdi, in ultimo Albanesi e Serbi, sono stati tutti vittime di quest’arma di distruzione di massa.
L’Occidente ha sostenuto l’applicazione dell’autodeterminazione politica nei confronti dell’Oriente, invocandola spesso per perorare l’indipendenza di Tibet, Kashmir, Cecenia, Belucistan, Waziristan, Kurdistan eccetera. La piena messa in pratica di questo principio avrebbe disintegrato l’Oriente in centinaia di staterelli, tutti aderenti al medesimo sistema di valori dell’Occidente liberale.
Si colgano le sottigliezze della storia. Nel XIX secolo, quando l’Occidente era frazionato in Stati nazionali e l’Oriente organizzato in grosse unità territoriali sovranazionali (le comunità della Turchia ottomana, dell’Austria-Ungheria, della Russia, della Cina e dell’India), gli Occidentali combatterono gli Orientali non solo col ferro e col fuoco, ma pure spargendo il seme dell’identitarismo nazionale (etnico) e del diritto all’autodeterminazione (compresa la secessione e l’indipendenza).
Nel XXI secolo, dopo aver predicato per duecent’anni quei princìpi, l’Occidente si trova unito in due grandi entità sovranazionali (Stati Uniti d’America e Unione Europea), mentre l’Oriente è frazionato in dozzine di Stati, e la tendenza alla frammentazione non accenna a sopirsi. In altre parole, Occidente ed Oriente si sono scambiati di posto; con la superiorità occidentale ben consolidatasi.
Questa trasformazione ci permette di riconoscere l’autodeterminazione politica per la potente arma ideologica che è: uno strumento dell’Occidente creato allo scopo d’indebolire e colonizzare l’Oriente. Una causa nient’affatto secondaria della dissoluzione dell’Unione Sovietica fu proprio l’attivazione di questo meccanismo, una mina ideologica latente ch’era stata innestata nel corpo dell’Unione Sovietica, per ragioni storiche, proprio dal Partito Comunista. I marxisti russi avevano ereditato questo principio dai loro omologhi europei, nei quali era connaturato in virtù del loro punto di vista eurocentrico. Il partito di Lenin ne minimizzò l’applicazione, ma non poté esorcizzarlo del tutto. Nel 1991, fu sfruttato per spaccare l’Unione Sovietica ed infliggere grave nocumento a milioni di cittadini. Milioni furono infatti i rifugiati, e molti di più persero il diritto ad usare il linguaggio nativo quando non i diritti civili più basilari.
Questo “diritto” falso e nocivo andrebbe cancellato dai libri e negato con forza, poiché la sua stessa presenza causa danni e spargimenti di sangue. L’Oriente (intendendo con ciò le terre eurasiatiche ad est dei paesi dell’Europa Occidentale) può così tornare alle sue origini: in altre parole, può utilizzare l’esperienza dell’integrazione europea e ricostituire una grande comunità che unisca le sue nazioni.
Tutte le grandi nazioni asiatiche ne hanno bisogno:
– la Cina, perché è impossibile accettare la secessione del Tibet, che renderebbe due milioni di Tibetani (o, meglio, la loro élite clericale) proprietari di milioni di miglia quadrate di territorio, mentre i due milioni di non tibetani che vivono nella regione perderebbero i propri diritti, quando non le proprie vite. L’autodeterminazione politica del Tibet provocherebbe una vasta pulizia etnica; indebolirebbe sia la Cina sia l’India (che possiede parti del “grande Tibet” storico) e costituirebbe una nuova base militare occidentale nel cuore stesso dell’Eurasia;
– l’India, poiché la secessione del Kashmir sarebbe parimenti inaccettabile. Un Kashmir musulmano indipendente sarebbe incapace di mantenere il controllo solo su due terzi del suo territorio attuale, poiché i buddhisti Ladakh e Hindu Jammu, oggi parte dello Stato del Jammu&Kashmir, non seguirebbero Srinagar. La gestione delle ondate di rifugiati musulmani che lascerebbero il Ladakh ed il Jammu, e quelle in direzione inversa degli indù in fuga dal Kashmir, rovinerebbe il paese per secoli, a prescindere se la secessione rinfocolasse o meno l’ostilità tra India e Pakistan. Piuttosto, si potrebbe intraprendere un largo progetto integrativo per rivedere la fatale partizione del Raj e quella lungo la Linea Durand. Il Pakistan, uno “Stato fallito”, sarebbe soppresso: una sua parte rientrerebbe nella madrepatria indiana, un’altra si ricongiungerebbe con l’Afghanistan;
– la Russia, per cui è in dubbio se l’applicazione dell’autodeterminazione politica verificatasi nel 1991 entro il territorio dell’allora Unione Sovietica avrà un effetto duraturo. La secessione dell’Ucraìna ha dato cattivi frutti: il regime filoccidentale di Juščenko ha messo al bando il russo, prima lingua per la maggioranza della popolazione del paese. Alla gente non è permesso usare il russo; persino le opere del grande scrittore ucraìno Gogol’ sono state classificate come “letteratura straniera”, essendo scritte in russo. Juščenko ha rifornito la Georgia d’armi moderne ed è deciso a condurre il suo paese nella NATO, rendendo così l’Ucraìna un nemico della Russia. La Georgia è una tirannide criminale: metà della sua popolazione è fuggita in Russia per sottrarsi a Saakašvili ed al suo regime “indipendente”.
Il dubbio “diritto all’autodeterminazione politica” andrebbe controbilanciato con due princìpi ben più essenziali: vietare la discriminazione e prevenire bagni di sangue. La creazione di nuovi Stati su base etnica, religiosa o culturale comporta inevitabilmente spargimenti di sangue e discriminazioni. Per esempio, la creazione dell’Estonia, della Lettonia e della Georgia indipendenti ha portato alla brutale discriminazione contro i non estoni, i non lettoni ed i non karveli, che costituiscono quasi la metà della popolazione di questi paesi. Al primo tentativo (dopo Versailles) di sottrarre queste aree alla Russia e renderle indipendenti, le élites locali espropriarono ed espulsero i Tedeschi dall’Estonia e dalla Lettonia e gli Armeni dalla Georgia. Le vittime del secondo tentativo, negli anni ’90, furono i Russi in Estonia e Lettonia e gli Abkasi e gli Osseti in Georgia. Ciò ha causato reazioni a catena: mentre i Tedeschi espulsi dai paesi baltici diedero linfa al militarismo hitleriano, gli Osseti e gli Abkasi hanno creato un nuovo problema, quello dei rifugiati georgiani provenienti dalle loro regioni.
Un matrimonio, come noto, può fallire; ma pure un divorzio!
Il divorzio tra le repubbliche sovietiche avvenuto nel 1991 ha fallito. La via d’uscita sta nella reintegrazione dell’area postsovietica, seguita dalla ricomposizione di altre grandi comunità (“imperi”) orientali; la riunificazione delle terre musulmane ed ortodosse – un tempo unite sotto gl’imperi bizantino ed ottomano – in una Comunità dell’Oriente, sotto gli auspici di Russia e Turchia, può rovesciare il processo di frammentazione che ha creato una dozzina di Stati balcanici, spezzato l’Iràq in tre parti, strappato il Libano alla Siria e il Kosovo alla Serbia. Anziché permettere al Kashmir di secedere, India e Pakistan dovrebbero riunirsi.
La riunificazione è la via per fermare discriminazione, pauperismo e sottomissione all’Occidente, mali che colpiscono tutte le nazioni d’Oriente. L’attuale collasso del sistema finanziario occidentale rende possibile e desiderabile siffatta azione.
La preminenza del principio di non discriminazione rispetto a quello d’autodeterminazione andrebbe proclamato ed imposto nel Vicino Oriente. Lo Stato ebraico è un progetto-pilota occidentale, creato destinando una fetta della Siria alla realizzazione del “diritto” del popolo giudaico all’autodeterminazione politica. È divenuto una costante fonte di discriminazione, incoraggia secessioni e separatismi, fa da base militare per l’Occidente, è uno Stato con alle spalle una lunga storia d’aggressioni ai suoi vicini, minaccia d’attaccare Siria e Iràn, trasgredisce alla non proliferazione nucleare. Tutto ciò si può curare riunificando la Palestina in un unico Stato non segregazionista. Siccome la risoluzione dell’ONU del 29 novembre 1947 non è stata rispettata, e non è sorto alcun Stato palestinese a se stante, causa l’intransigenza delle élites ebraiche, tale disegno andrebbe abbandonato a favore d’un progetto d’integrazione. La crazione d’uno Stato non espansionista né segregazionista al posto dello Stato ebraico potrebbe rappresentare il punto di svolta per l’Oriente, dalla frammentazione all’integrazione.
2. Egemonia ed autodeterminazione
La strada per l’autodeterminazione sistemica delle nazioni – la via al loro diritto di vivere secondo i propri valori – è bloccata dall’egemonia occidentale. Quest’egemonia è non solo materiale – quella che s’esprime con la conquista militare e la colonizzazione – ma pure culturale. Tale egemonia culturale ha radici profonde, cominciando dalle antiche rivendicazioni del papa romano riguardo la sua preminenza su tutti i patriarchi. Quest’egemonia è collegata – pur non coincidendovi del tutto – con la visione del mondo eurocentrica. L’eurocentrismo è, sostanzialmente, una visione campanilistica di gente che non conosce a sufficienza il resto del mondo e dunque pecca di scorrettezza politica. L’egemonismo occidentale supera però di gran lunga il campanilistico eurocentrismo. Edward Said ha correttamente notato il desiderio di dominio politico ed ideologico che soggiace alla visione culturale eurocentrica.
Il dr. J.C. Kapur ha citato la “minuta Macaulay” allo stesso proposito: «Noi [Britannici] non potremo mai conquistare l’India senza averne spezzato la spina dorsale, ossia il suo retaggio spirituale e culturale. Se gl’Indiani penseranno che tutto ciò ch’è straniero ed inglese è buono e più grande, perderanno l’autostima, la cultura nativa e diveranno così come noi li vogliamo: una nazione davvero sottomessa». Non è questa un’esatta citazione, ma è la summa del discorso di Macaulay. In altre parole, l’egemonia culturale – per usare categorie gramsciane – è un prerequisito per un duraturo dominio politico ed economico.
Nell’ultimo quarto del XX secolo, l’egemonia è mutata: la base su cui poggia s’è ristretta sensibilmente. Dapprima, è divenuta egemonia solo statunitense; in seguito, è diventata egemonia delle élites statunitensi, finanziariste e fortemente giudaizzate. Questa non è più egemonia occidentale, ma egemonia contro l’Occidente così come contro l’Oriente. Il paradigma egemonico liberale è una forza ostile anche ai popoli occidentali: la lunga tregua tra gli egemoni e le genti dell’Occidente è finita.
Gli egemoni negano il diritto all’autodeterminazione sistemica. Negano cioé:
– il diritto degl’Iraniani a vivere secondo la propria religione e sotto la guida dei loro capi spirituali;
– il diritto dei popoli nordcoreano e cubano di restare comunisti;
– il diritto dei Palestinesi d’eleggere un governo religioso e solidarista, come quello di Hamas;
– il diritto di Russi e Malesiani a mantenere la televisione sotto controllo nazionale.
Inoltre, negano:
– il diritto degli Austriaci ad eleggere un governo destrorso;
– il diritto degli Statunitensi a bandire l’aborto e celebrare apertamente il Natale;
– il diritto di Francesi e Tedeschi a disapprovare la visione del mondo giudaica;
– il diritto degli Svedesi di limitare l’immigrazione e la promiscuità culturale.
In breve, gli egemoni negano il diritto delle nazioni a scegliere il loro sistema politico e vivere secondo i propri princìpi. Esiste – affermano loro – un unico sistema di valori permesso ed accettabile (quello occidentale, liberale, laico e civilizzato) mentre gli altri sono inferiori, errati, criminali e fallaci.
Le nazioni d’Occidente sono ancora soggiogate e non osano ribellarsi apertamente agli egemoni. L’Oriente ha un atteggiamento diverso: nazioni e civiltà hanno il diritto di vivere come vogliono. L’Occidente può rompere con quest’egemonia oppure accettarla, se le garba. L’Oriente rivendica il medesimo diritto di scelta.
Ciò è stato proclamato dal presidente russo Dmitrij Medvedev nei discorsi in cui ha auspicato il multipolarismo. La dottrina della multipolarità non si limita a moltiplicare le strutture di potere, come affermano taluni. Essa va ben oltre, riconoscendo legittimità ad una pluralità di sistemi politici ed etici nonché il diritto all’autodeterminazione sistemica.
Gli egemoni, in teoria, accettano questo diritto, ch’è riconosciuto dalla Carta delle Nazioni Unite, ma nella pratica lo negano lottando contro i sistemi di valori altrui, richiedendo la sottomissione alla loro egemonia ed al loro modello di civiltà.
Ora possiamo riconsiderare la Guerra Fredda: non fu un conflitto ideologico tra due sistemi politici, bensì la lotta dell’Oriente per vivere secondo i propri valori. L’Oriente comunista non cercò d’imporre i suoi valori all’Occidente, ma fu quest’ultimo a negare al primo il diritto di vivere secondo lo stile prediletto.
Noam Chomsky ha cercato di ridurre tale questione dell’egemonia al suo aspetto economico. Egli scrive che gli Statunitensi, in quanto portatori dello spirito egemonista occidentale, cercherebbero “solo” accesso ai mercati ed alle risorse degli altri paesi – il “diritto al saccheggio”, per usare le sue parole. Ciò da solo sarebbe già abbastanza brutto, ma gli egemoni non si soddisfano colle sole ruberie; essi necessitano non solo del tuo denaro e del tuo lavoro, ma anche della tua anima.
A tal scopo, hanno costruito un sistema in cui una singola civiltà controlla il mondo: utilizzano l’ONU, i tribunali internazionali, la Corte Mondiale, l’AIEA ed altre agenzie. I dirigenti dell’Oriente ancora non capiscono che questi organismi sono in mano agli egemoni e servono a minare l’indipendenza dell’Est.
Molte nazioni riconoscono che gli egemoni occidentali non si soddisfano con la sola preda finanziaria: essi pretendono la sottomissione al loro diktat culturale. Questa è la ragione per cui tutti i dirigenti russi post-sovietici (incluso il signor Medvedev) hanno promesso d’aderire ai valori dell’egemone, pur tentando di difendere le proprie risorse naturali. Accettano di partecipare ai vari eventi “auschwitziani”, costruire musei della tolleranza e denunciare false offensive razziste ed antisemite. Fanno ciò per essere depennati dalla lista dei nemici: “l’asse del male”. Ma la Russia – al pari d’altre terre meno centrali – non s’è mai realmente sottomessa al paradigma liberale ed è perciò rimasta un’avversaria, a dispetto dei proclami dei suoi dirigenti.
Un sistema di valori definisce vizi e virtù, e non è uguale in tutte le civiltà. Sotto il giogo dell’egemone, l’umanità non si limita a passare dal carretto alla macchina a motore, ad abbandonare le piacevoli conversazioni nei salotti e nei giardini per guardare la “CNN” o “MTV”. La parte più avanzata e progredita dell’umanità ha anche forgiato novelle virtù dai vecchi vizi: il goloso diventa un critico della ristorazione; l’invertito mette in mostra il proprio orgoglio per le vie della città; l’iracondo invoca il “giusto” bombardamento di Tehran; l’accidia è stata promossa a stile di vita. L’avidità è divenuta la più alta qualità dell’uomo nuovo.
I sistemi si distinguono per il diverso atteggiamento verso Dio. L’Oriente – al pari dell’Occidente tradizionale – predilige la solidarietà e l’amore per la divinità, rigetta l’avidità; il paradigma egemonico liberale, invece, celebra l’individualismo, indica l’avidità come suprema virtù e relega il divino ad un ruolo minore. La scelta – affermata nel Vangelo – tra Dio e Mammona non è mai stata così valida e palese.
Ora che i castelli di carta eretti da Mammona collassano, l’illusione del mercato come sola misura delle cose svanisce. L’avidità distrugge sempre le società. Le società che scelgono Dio sono più sagge di quelle che optano per Mammona.
In Occidente, i credenti sono perseguitati. Negli USA è proibito persino fare gli auguri di Pasqua o Natale: taluni insegnanti sono stati licenziati per questo motivo. D’altro canto, l’Oriente trabocca ancora di fede. In Russia, le chiese sono gremite, le feste religiose si celebrano in piazza ed il desiderio di solidarietà è più forte che mai. La stessa tendenza s’osserva in Palestina, Turchia e Iràn, dove la gente preferisce la solidarietà religiosa al freddo e razionale nazionalismo laico. Potrebbe essere lo stesso in Occidente, se i grandi maestri spirituali del secolo scorso, Simone Weil e T.S. Eliot, fossero oggigiorno almeno considerati. La loro sconfitta ha permesso l’ascesa dell’egemonia liberale. Solo dopo la sconfitta dell’egemonia le civiltà saranno in grado di rispettarsi l’un l’altra e dialogare, accettando la reciproca autodeterminazione sistemica. Alfine, abbiamo l’occasione di realizzare questo sogno.
(traduzione di Daniele Scalea)
* Israel Adam Shamir è un giornalista e saggista russo-israeliano. Tra le sue opere più famose e pubblicato anche in traduzione italiana è Carri Armati e ulivi della Palestina. Il fragore del silenzio (CRT 2002).
A “Eurasia” ha collaborato col pezzo “Il fiore e la croce”, apparso sul numero 1/2005.
I suoi due ultimi libri sono: Cabbala of Power (BookSurge Publishing, 2008) e Masters of Discorse (BookSurge Publishing, 2008).
Per le Edizioni all’insegna del Veltro (Parma) è in corso di stampa una raccolta dei suoi ultimi saggi.
Fonte: http://www.israelshamir.net/English/rhodes.htm
http://www.eurasia-rivista.org/cogit_content/articoli/EkkyVlZVyFuRwbyYYa.shtml